IL SARTO DELL'ANIMA

Un celebre sarto venne incaricato dal re di creare «l’abito più bello che la corte avesse mai visto». Il sarto si mise subito al lavoro, mettendo nella sua opera tutto sé stesso: ad ogni passaggio pensava fervidamente a tutta l’esperienza e a tutto l’onore che da sempre lo ricoprivano, e come quest’ulteriore incarico rafforzasse ulteriormente il proprio valore. Orgoglioso di sé, presentò il proprio lavoro al re, che, con grande scalpore della corte tutta, lo rifiutò drasticamente e ne richiese uno nuovo al più presto.

Al sentire il giudizio del re il sarto fu preso dall’angoscia e si sentì rifiutato. Quasi privo di acqua nel corpo, per il sudore e le lacrime versate, andò a confrontarsi col saggio di corte – al quale non si era mai rivolto prima – pregandolo umilmente di aiutarlo. Questi, gli disse di disfare l’abito con cura e di ricostruirlo nuovamente. Il sarto così fece. Mettendo nella sua creazione tutta la sua maestria – disfò l’abito e lo ricostruì da capo, tale e quale a prima. Con grande umiltà, e senza pretesa alcuna, tornò dal re. Sebbene il nuovo abito apparisse identico al primo, questa volta, il re saltò dall’entusiasmo e lo nominò primo sarto di corte. Sbigottito, il sarto si rivolse nuovamente al saggio, che gli svelò: «Non è l’abito ad essere cambiato ma il modo in cui tu l’hai fatto».

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In questo racconto, ispirato da Jodorowsky[1], la creazione dell’abito rappresenta l’azione, l’agire in genere.
Esso è la metafora di tutto ciò che facciamo, come co-creatori della realtà.
L’abito è la cosa, la forma; l’azione del crearlo è il come, la sostanza o l’essenza di ogni nostra azione riflessa sul piano materiale. Il concepimento dell’abito è l’azione creatrice che può essere rivolta verso i due poli: positivo - lo spirito - o negativo – la materia e che può essere operata dal proprio sé superiore, o dal proprio piccolo sé, l’ego.
Sta nel modo, nel come in-personifichiamo l’azione, la differenza: non è solamente la cosa facciamo ma lo spirito con cui lo facciamo.
A prescindere dai credi, dalle religioni e dalla propria concezione di spiritualità, questo racconto può essere portatore di un insegnamento che sia valido per tutti noi?
Per tutte le nostre azioni?
Possiamo trarne un insegnamento universale e farlo nostro, personale?
Nella nuova coscienza emergente, le storie, i racconti, le favole non sono più categoricamente rilegate a un mondo estraneo, trascendente, oppure a delle belle parole scritte per intrattenersi, per “passare il tempo”; esse rappresentano un mezzo, uno strumento di elevazione della propria coscienza e della coscienza collettiva, di conseguenza[2]. Le favole non sono più dei racconti d’intrattenimento per i bambini ma sono degli insegnamenti universali, trasmessi attraverso l’arte del racconto. La favola è oggi la rappresentazione vivente della consapevolezza e noi fruitori siamo la coscienza che grazie ad essa si eleva.
Compreso il carattere introspettivo del racconto possiamo quindi addentrarci nella sua trama per riportarla alla nostra esperienza personale, alla nostra vita, e chiederci:
Cosa mi trasmette questa storia?
Mi ci ri-vedo? ovvero è possibile che io sia il sarto?
O che abbia assunto il suo stesso comportamento in ciò che faccio?